Qualche giorno fa c’era in rete una discussione che diceva: «Qualche giorno fa in rete c’era una discussione che diceva: «Qualche giorno fa in rete…
Si discuteva sulla soluzione, o almeno dei comportamenti da adottare, agli sgomberi, sfratti forzati, chiusura di centri sociali e luoghi di incontro e cultura di anni. Ma anche per quanto riguarda la situazione internazionale. Tutto ciò nasceva dopo il tentato sgombero del csoa cox 18 da parte di sbirri senza carte, azione fermata dalle proteste immediate e dagli avvocati.
Tra chi scriveva c’era chi auspicava ad una rivolta fisica ed importante della gente, azioni globali di strada, voci forti e coordinate, resistenza attiva. Rifiutava, o quasi, le manifestazioni pacifiche, fini a se stesse, le feste dopo la mala situazia, i sorrisi in piazza dopo il danno e l’offesa.
C’era invece, chi era contro ogni violenza, solo sfogo di rabbia, risultato parziale e temporaneo, nessun effetto costruttivo o di cambiamento, ma portatore di situazione peggiore di fronte alla legge. Ma nessuna soluzione proferiva dalle dita, indecisione sul da farsi.
Ed infine c’era chi non diceva un cazzo. Tipo me.
Ma snocciolerò il mio semi-punto di vista, adesso.
La situazione di merda in cui si vive in Italia la sanno tutti, quelli che provano a dare un’occhiata.
Io sono cresciuto in provincia, ho avuto un’adolescenza tranquilla, droghe tranquille, manifestazioni tranquille.
Non eravamo, io e i miei coetanei, né attivisti, né socialmente impegnati, né altro. Non sapevamo il mondo, ignoranza semplice.
La prima volta che sono entrato in un centro sociale frequentavo già l’università. Nei paesi in cui ho vissuto da medio-piccolo non ne rimembro l’esistenza. C’erano piazzette, parchi, pinete, corridoi di scuola, abitacoli di auto. Erano i nostri luoghi di conversazione.
Infine l’università, ma soprattutto la grande città, è stata la grande informatrice. Vedevo queste persone venire da ogni parte d’Italia o anche da fuori, portare storie, diversità, drammi, notizie. E cominciai a comprare Repubblica. Lo divoravo quel quotidiano, quattro, cinque, sei volte alla settimana. Facevo pile che poi buttavo a pacchi nella carta (quanto spreco di carta, direi oggi!). E credevo in quel che c’era scritto senza dubbi…
Più in là conobbi le ragazze e i ragazzi che gestivano l’aula autoorganizzata in uni. Lì c’era sempre il Manifesto, il giornale. Ed è in quel periodo che iniziai a conoscere i centri sociali ed i centri popolari autogestiti… ciclofficine, concertini, cani, teatrini e cultura antagonista e alternativa, manifestazioni nella capitale.
Queste graffitate stanze sono stati i miei luoghi solo per un breve periodo, poi finalmente è finita l’università e chi s’è visto s’è visto.
E poi la Scozia, e poi Londra.
Non riuscirei a prendere profondamente e con passione a cuore la loro sorte, se non per una responsabilità più alta di solidarietà. Non li conosco veramente, non sono mai stato un membro attivo, non ho mai organizzato, sono sempre e solo “passato di là”. Non so se la colpa è dell’adolescenza fuori città, della mia indissolvibile e marmorea timidezza oppure di una più profonda noncuranza o boh.
Nonostante ciò, capisco che non bisogna essere chissà chi per esserne indignati, comprendo la loro importanza sociale, sento che sta succedendo una cosa MALE, riconosco il fascismo che tanto mi raccontavano i libri.
Ma quindi che fare? Che fare quando la prepotenza istituzionale prevarica i diritti basilari? Perché qualcosa andrà fatto, io credo.
Manifestiamo? Facciamo un altro corteo fischiettando? Oppure andiamo a spaccare i simboli del capitalismo e del potere corrotto?
C’è chi consiglia di incanalare la rabbia (traduco adrenalina, energia) per usi più proficui. Sì, ma dove? Che poi il disgusto, lo schifo e quindi la rabbia sono temporanei, spesso dopo un po’ si accumulano nell’indifferenza o nella rassegnazione. Se non fai un cazzo diventi complice passivo.
Secondo me, uno o una, a cui interessa un po’ la situazione, o cambia Paese o meglio Continente, oppure fa qualcosa dentro e si fa sentire.
Forse la strada più utile è, sì, manifestare, manifestare i propri sentimenti e speranze… ma anche quella di restare organizzati e costruire. Costruire nuovi centri d’incontro e di scambio, rischiare con l’occupazione di spazi inutilizzati, creare reti di pensiero e di informazione, rafforzare quelle già esistenti…
Non lo so, è che è tutto così confuso e corrotto, che davvero la reazione più liberatoria, facile, immediata è quella di rompere tutto.
No ma davvero. Rompiamo tutto e ricostruiamo da capo ogni cosa. Si fa prima.